23 marzo 2006

Melanconia per personaggi cechoviani

Torno a casa dopo una giornata piena di lavoro. Il lavoro, che offre dignità all’essere umano. Il lavoro è andato bene, il lavoro è andato male, è lo stesso. C’è; e questo è ciò che mi permette di essere al massimo un po’ depresso, malinconico; niente di più grave, per fortuna. Che piova o che splenda il sole, arriva questo momento, nel quale, confesso, mi piace sguazzare; a volte addirittura cullarmi: è il mio universo solidale. Prendo posto accanto alla finestra, guardo di fuori, ascolto il silenzio, e vorrei solo una cosa dalla vita. Lì, in quel momento. Ma ogni volta che mi avvicino a capirla, a darle una forma, passa un treno. Sempre lo stesso, puntuale come mai lo sono i treni nella realtà. Mi resta addosso un senso di perdizione, mi tremano un po’ le gambe, e tutto quello che per qualche istante si era poggiato sulla punta della mia lingua, pronto ad uscire fuori forte e potente come un fiume, viene inspiegabilmente inghiottito. Allora mi siedo un istante, accenno qualche nota col violino, e finisco inevitabilmente per recarmi in cucina a mangiare qualcosa. Ho una voglia matta di fare cose nuove, anche se so già che non ne porterò a termine nessuna. E’ un perenne tentativo di costruire qualcosa, il mio; tutte le cose della mia vita sono fatte a pezzi, come le costruzioni; ma in ognuna mancano dei pezzi fondamentali, e nessuno riesce a vederlo, questo. Ma quali pezzi? Quali? Quando cerco di capirlo la paura di me stesso fa si che passi quel treno per distrarmi. Allora non mi resta altro da fare che andare alla ricerca di un sorriso, di uno sguardo che, empaticamente, mi riporti la passione dell’ottimismo.

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